Silvano Franzolin

La Casa della Cultura e della Legalità, nel bene confiscato di Salvaterra (RO), è intitolata all’appuntato Silvano Franzolin di Pettorazza Grimani (unica vittima polesana della mafia).


È l’estate del 1982, quella che i più ricordano con piacere per la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio, ma è anche quella in cui il Paese si trova ad affrontare una partita ben più importante: quella contro la “mattanza” di Palermo. È l’estate del prefetto dei cento giorni, è un’estate sanguinosa, la più sanguinosa di sempre, iniziata il 30 aprile con l’assassinio di Pio La Torre, segretario regionale del Pci, e del suo agente di scorta Rosario Di Salvo.
La Torre aveva presentato un disegno di legge che introduceva per la prima volta il reato penale di appartenenza ad un’associazione di stampo mafioso e che andava a toccare l’aspetto patrimoniale con il sequestro dei beni. Fino a quel momento i delitti di mafia rientravano nel più generico art.416 del codice penale “associazione per delinquere”; troppo generico per un fenomeno vasto e complesso come quello mafioso.
La Torre e Di Salvo segnano l’inizio di quella estate.
Partita da Enna alle 8 del mattino del 16 giugno, la Mercedes guidata da Giuseppe Di Lavore, sfreccia veloce verso Trapani; Giuseppe non dovrebbe trovarsi alla guida dell’auto, ma all’ultimo sostituisce il padre, come lui autista della ditta che ha in appalto il trasporto dei detenuti. Si trovano a bordo anche l’appuntato Silvano Franzolin, i due carabinieri Salvatore Raiti e Luigi Di Barca e il detenuto Alfio Ferlito, personaggio di spicco della mafia catanese, condannato a sette anni di reclusione per traffico di droga. Ed è proprio per tradurre il Ferlito a Trapani, che la Mercedes sfreccia lungo la circonvallazione palermitana: la destinazione è una casa penale più sicura ora che egli è diventato un uomo cosiddetto “segnato” all’interno degli ambienti mafiosi; quegli ambienti dai quali il padre aveva tentato di tenerlo lontano facendolo anche costituire.
Sono le 10 e 30 quando lungo la circonvallazione sopraggiungono una Bmw e un’Alfetta 2000: sono lì per la Mercedes, sono lì per Ferlito. Aprono un fuoco sicuro, aggressivo, spietato, intenso: Di Lavore, Raiti, Di Barca e Ferlito muoiono all’istante, mentre la loro auto termina la sua ultima corsa contro la 500 della giovane Nunzia Pecorella, rimasta ferita ma salva. Franzolin, seduto sul sedile posteriore, riesce ad aprire lo sportello; esce impugnando la pistola nel tentativo di rispondere al fuoco, ma solo pochi passi e si accascia in una pozza di sangue.
Finisce così la sua giovane esistenza iniziata il 3 aprile del 1941 a Pettorazza, uno dei tanti piccoli comuni a vocazione rurale del Polesine: lì ancora oggi lo ricordano come un ragazzo sempre sorridente, simpatico, amante della compagnia. Silvano è un bracciante agricolo con la 5^ elementare – per l’epoca un buon grado d’istruzione – quando il 18 novembre del 1959 si arruola nell’Arma dei Carabinieri presso la Scuola Allievi Carabinieri di Torino.
Per lui è una grande passione: solo pochi mesi dopo, passa alla Legione Allievi Carabinieri di Roma per perfezionarsi nell’equitazione ed entrare nell’arma a cavallo: sarà però un infortunio a porre fine a questo sogno. Intanto, il primo settembre del 1960, è promosso carabiniere. Inizia la carriera prestando servizio a Brescia per poi venire inviato in Sicilia dove tocca un po’ tutte le province e soprattutto Enna; lì incontra l’amore, Gaetana Camerino, un amore che avrà presto altri due nomi: Fabio e Maura.
Ma il legame con Pettorazza non è reciso e non appena ha un permesso vi fa ritorno. Il primo settembre del 1974 raggiunge il grado di appuntato. La carriera avanza e la vita scorre, almeno fino alle 10 e 30 di quel 16 giugno, mentre a casa Fabio di 10 anni e Maura di 5 stanno aspettando il loro papà; un papà che non tornerà più, steso in una pozza di sangue sotto gli occhi lucidi del generale Dalla Chiesa che cerca un lenzuolo per coprire i corpi di quei poveri ragazzi; il prefetto dei cento giorni è il primo ad accorrere, è in borghese, non ha la divisa né i suoi uomini. È solo e sa che è questione di tempo e arriverà il suo turno.
Ma intanto è quello del ventisettenne Giuseppe Di Lavore, del diciannovenne Salvatore Raiti e di Luigi Di Barca, 25 anni, sposato da uno, la moglie incinta della loro primogenita. È quello di Silvano. Poche centinaia di metri più avanti, la Bmw e l’Alfetta 2000 vengono abbandonate e date alle fiamme. Sul posto, invece, la scientifica rileva 6 bossoli di cartucce a lupara e 60 di Kalashnikov, arma utilizzata dall’81 all’83, anno in cui verranno “inaugurate” le autobombe comandate a distanza con il giudice Rocco Chinnici e la sua scorta. Oltre al prefetto, accorrono il Generale Comandante la brigata carabinieri, il colonnello Comandante della legione, il questore, il procuratore capo della Repubblica, magistrati, carabinieri, Guardia di Finanza, funzionari e agenti della mobile e della Criminalpol. La matrice catanese è da subito evidente, come anche l’obiettivo: Alfio Ferlito. Ci vorranno venti anni per dare un nome agli assassini e al mandante, Totò Riina, che fece un favore al suo alleato Nitto Santapaola, rivale del Ferlito. Manca ancora, però, il nome della talpa, il nome di chi sapeva che quel giorno sarebbe avvenuto il trasferimento.
Ancora 79 giorni e il 3 settembre anche il generale Dalla Chiesa sarebbe stato ucciso nello stesso modo, con la moglie e l’agente di scorta: in auto, sotto un fuoco sicuro, aggressivo, spietato, intenso. Alla domanda “Cos’è la mafia?” postagli da uno studente poco tempo prima, il prefetto aveva risposto: “Un modo di essere, di gestire la propria persona in mezzo agli altri. Io credo ancora che esistano valori soprattutto perché noi siamo uomini e non numeri. Bisogna respingere qualsiasi forma di corruzione perché è su questa che si alimenta la mafia e il vostro condizionamento”.
Finiva così l’estate del 1982, con una vittoria ai mondiali di calcio e un tributo altissimo di sangue; un tributo che non fu però una sconfitta: se oggi siamo qui, in questa villa, è per l’eredità che ci è stata lasciata dalle loro vite, è per la legge Rognoni-La Torre del 13 settembre di quella estate, è per un pool di uomini virtuosi, Rocco Chinnici, Antonio Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino che portarono a processo 470 imputati, pagando a caro prezzo il loro impegno. Siamo qui per le donne che hanno scelto di stare accanto a questi uomini con la consapevolezza del rischio della perdita del loro compagno o della loro stessa vita. Siamo qui per tutte le persone che con la divisa, con abiti civili, con abiti talari hanno scelto di dire basta.
Tanto è stato fatto, tanto resta da fare ma gli esempi a cui ispirarsi ci sono: come Silvano, che sì, è morto nell’adempimento del proprio dovere ma nella virtù di una scelta coraggiosa.

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