Rita Atria

“Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.
Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi.
Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi.
Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta.”

(Rita Atria)

Contesto.

Quello del post-terremoto del 1968, che in Sicilia distrugge la valle del Belice.
Nella zona interessata, fiumi di stanziamenti arrivano per ricostruire i paesi, ma una buona parte scompare in mille rivoli.
Partanna, da centro di pastori, si trasforma in centro di traffici di droga e armi.

Rita.

Una ragazza siciliana, minuta, piccolina, dagli occhi neri e i capelli castani, gracile ma tanto forte e coraggiosa.
È la fine del 1991: Rita incontra il magistrato Paolo Borsellino, un uomo buono dal sorriso dolce, e lei parla, parla … racconta fatti, fa nomi.

“Mio padre? Amato e rispettato da tutti”.

Rita è figlia di un piccolo boss di quartiere, facente capo agli Accardo (Cannata).
Nasce e cresce a Partanna, piccolo comune del Belice, una vasta zona divenuta famosa perché distrutta dal terremoto.
Originariamente Partanna è un paese tipicamente dedito alla pastorizia. Qualcuno negli anni ottanta decide diversamente: pian piano i pecorai si trasformano in abili trafficanti di droga e Partanna diventa un paese in cui molto probabilmente circola denaro proveniente dal narcotraffico.
Il padre di Rita, don Vito Atria, ufficialmente pastore, allevatore di pecore, è un uomo “di rispetto”, che si occupa di qualsiasi problema: trova soluzioni per tutti, mette pace fra tutti.

Boss piccolo, pericoloso e smargiasso.

Il 18 novembre del 1985 don Vito Atria, non avendo capito che il tempo è cambiato e che la droga impone un cambio generazionale, viene ucciso.
Rita, anche se appena dodicenne, comincia a rimuginare vendetta dentro di sé. Ma la morte del padre le lascia un vuoto immenso. Riversa allora tutto il suo affetto e la sua devozione sul fratello Nicola.
Nicola Atria è un “pesce piccolo”, che col giro della droga riesce a fare i soldi ma non a conquistare anche il “potere”. Gira sempre armato e con una grossa moto. Quello fra Rita e suo fratello diventa un rapporto molto intenso, fatto di tenerezza, amicizia, complicità, confidenze. È Nicola, infatti, che le dice delle persone coinvolte nell’omicidio del padre, del movente; le spiega chi comanda in paese, le gerarchie, cosa si muove, chi tira le fila … trasformando così una ragazzina, che avrebbe dovuto pensare a giocare, in custode di segreti più grandi di lei.
Oltre a tutto ciò, si innamora e si fidanza con Calogero (Gero) Cascio, un giovane del suo paese, impegnato nella raccolta del pizzo: un estorsore, per essere chiari. Da Calogero Rita apprende moltissimo, inoltre, grazie al rapporto con lui, tutti gli altri si fidano ancora di più di lei: in presenza di Rita si può parlare o spacciare. Nessuno pensa di nascondersi.
Figlia e sorella di personaggi perfettamente inseriti nella mafia locale, cresce in quegli ambienti. Nonostante sia ancora piccola, Rita è come una spugna. A casa sua, faide, ragionamenti, strategie, vecchi rancori, interessi di ogni tipo sono all’ordine del giorno; lei assiste, ascolta, osserva. Nessuno si preoccupa di salvaguardare la sua adolescenza. Piccola grande Rita. Sensibile all’inverosimile, eppure ostinata, caparbia, dimostra di essere molto dura ed autonoma fin dall’adolescenza.
Tutto questo fino al 24 giugno del 1991, giorno in cui anche suo fratello Nicola viene ucciso e sua cognata Piera Aiello, che da sempre contesta al marito le sue frequentazioni e i suoi affari, collabora con la giustizia.

Rapporti e codici di mafia.

È l’estate del 1991, da qualche mese sua cognata Piera vive in una località segreta. Gero, il fidanzato, l’ha rinnegata, interrompendo il fidanzamento con Rita perché cognata di una pentita. Con la madre Giovanna Cannova, donna di mafia, non si sono mai comprese, le univa solamente il padre.
Rita è veramente sola. Non sa con chi scambiare due parole. Il suo cuore addoloratissimo guarda e pensa alla vendetta. Sì: vuole vendicare suo padre e suo fratello, le uniche persone buone che le volevano bene, la capivano, la coccolavano. Non sa cosa fare. Sottomettersi come sua madre o ribellarsi?
Nella decisione che prende non c’è il grande ideale, la lotta alla mafia … ha appena diciassette anni, le hanno ucciso il padre e il fratello, secondo lei persone speciali. Conosce solo quel mondo, solo quel tipo di persone.
Pensa tanto, riflette … finché non decide … la sua non è un’iniziativa inconsulta ma ragionata, sofferta, presa in una solitudine, fisica e morale insieme.

IO, RITA ATRIA, DENUNCIO!

Così un giorno Rita, aria un po’ timida, il cuore gonfio di dolore e di coraggio, si ritrova nella stanza del procuratore Paolo Borsellino. E parla, parla. Butta fuori quei discorsi fatti a tavola, le frasi, i bisbigli, i nomi pronunciati a bassa voce dal padre o dal fratello. Sono almeno dieci anni di resoconti, di vicende, di strani incontri, di minacce e paure, di relazioni perverse, anche di uomini politici coinvolti in omicidi.
È il 5 novembre del 1991 quando Rita, ad appena diciassette anni, comincia a denunciare il sistema mafioso di Partanna e a vendicare così l’assassinio del padre e del fratello. Il giudice Paolo Borsellino è un uomo buono che per lei sarà come un padre, la proteggerà e la sosterrà nella ricerca di giustizia; tenterà anche qualche approccio per farla riappacificare con la madre.
“Rita, non t’immischiare, non fare fesserie” le aveva detto ripetutamente la madre, che ancora non sapeva della sua collaborazione; ma quel magistrato alla ragazza sembra un papà, i loro incontri non sono poi tanto formali, sono fatti di baci e abbracci. Tanta tenerezza. Per Rita diventa facile raccontare e ricostruire anche cose successe quando era molto piccola.
La ragazza inizia così una vita clandestina a Roma. Vive sotto falso nome; per mesi e mesi non vede nessuno oltre Piera e la piccola Vita Maria, e soprattutto non vedrà mai più sua madre. Si innamorerà, studierà, sarà interrogata dai magistrati.
Man mano che i giorni passano il suo rapporto con Borsellino diventa più profondo, speciale; quel giudice che la chiama “picciridda” è l’unico conforto, l’unica speranza.
Deve raccontargli tutto, metterlo al corrente … ma arriva l’estate del 1992, quando ammazzano Borsellino e Rita non ce la fa ad andare avanti: una settimana dopo la morte del magistrato, lei si uccide.

“La Giunta autorizza a procedere!”

“Fimmina lingua longa e amica degli sbirri” dice qualcuno intenzionalmente, e così al suo funerale non partecipa nessuno del su paese, nemmeno sua madre, che, disamorata, fredda e distaccata, l’aveva ripudiata e minacciata di morte, perché quella figlia così poco allineata, per niente assoggettata, le procurava stizza e preoccupazione. Inoltre, non perdona né a lei né a “quella poco di buono” di sua nuora di aver “tradito” l’onore della famiglia. Si recherà al cimitero parecchi mesi più tardi, quando con un martello spaccherà sia il marmo tombale, sia la fotografia della figlia, una foto di Rita appena adolescente, portata da altre persone venute da fuori.

Il Presidio di Piove di Sacco (PD) dedicato a Rita Atria.

L’idea che una cultura della legalità in senso lato si costruisca a partire dai giovani e sia uno tra gli strumenti più importanti per promuovere la giustizia sociale è centrale per il Presidio, che, per questo, decide di privilegiare l’attività nelle scuole e tra i giovani.
Da qui la scelta di Rita Atria, una ragazza giovane, coetanea dei giovani a cui il Presidio si rivolge, testimone che l’impegno civile non ha età e coinvolge tutti, nessuno escluso.